14 Lug “Root” una telecaster fossile
Era il pezzo più brutto… nodoso, tarlato, crepato, fessurato… Una tavola sfigata. Nessuno la voleva.
Dopo aver stazionato in segheria per una ventina d’anni…..in fondo a una catasta in un piazzale esposto alle intemperie, è rimasto per due anni fuori dalla porta del mio laboratorio; al sole, alla neve, al gelo, all’umido, al secco, nell’angolo dove i gatti litigano, pisciano e vanno a farsi le unghie… dove nemmeno le erbacce crescono, vicono alla grondaia dell’acqua, appoggiato a un muro di cemento sotto una tettoia di amianto sbriciolato.
Se non ha sofferto questo pezzo di legno, nessun altro legno ha sofferto, a parte la croce di Cristo… dentro c’è tutto il blues e il mojo che si possa volere da una chitarra. L’importante è saperlo tirar fuori.
Una mattina, infilando la chiave nella porta, con la coda dell’occhio lo osservo… sembra mi dica “hey… hey… guardami… ti ricordi di me? non lasciarmi qui a finire di marcire nel nulla”. Ok, ti guardo… lo guardo e vedo.
Vedo il body in quel legno, a mo’ di Geppetto che vede Pinocchio nel ciocco; lo vedo e mi domando se valga la pena.
Si che ne vale la pena.
Lo porto dentro e ragiono su come trattarlo; è un pezzo particolare.
È unico, a suo modo.
Non avrebbe senso piallarlo, levigarlo, carteggiarlo, verniciarlo, lucidarlo.
Significherebbe domarlo, umiliarlo ancora un’ultima volta.
Un pezzo di pioppo marezzato; sulla carta un gran bel legno; figurato, tridimensionale, pregiato; roba da 100 euro a top.Ma non questo pezzo.
Questo è il fratello sfortunato di altri pezzi che son diventati volti di chitarre lucenti, lisce, levigate, dai colori sgargianti e dall’aria ammaliante, segati in tanti fogli sottili per moltiplicarne il più possibile la bellezza… duplicati, massificati, omologati.
No, a lui tocca un’altra strada.
Lui è unico. Sporco. Cattivo.
Ok… è mio: sarà la mia prossima chitarra.
Alla mia maniera però… e alla Sua.
Non sarà facile mantenere il suo carattere scorbutico e ruvido; sarà mio obiettivo non perdere la sensazione di grezza e dolorosa autenticità che trasuda da questa tavola.
Decido di usare la fresa il minimo indispensabile. Ci ricavo solo gli scassi per manico, pickup e controlli. Il contorno lo taglio con la sega a nastro e stop, nessuna rifinitura ulteriore.
Evito volontariamente di escludere quei nodi e quelle cavità dal profilo… o di relegarle sul retro. Devono essere in vista. Due sono passanti da parte a parte.
Ci guardo attraverso.
La tavola è un po’ torta, una sorta di “contour” naturale, ma devo fresare la tasca del manico un po’ inclinata per mantenere il piano della tastiera in asse con il ponte.
Tocco il body… sento il rilievo delle marezzature, le piccole crepe, infilo le dita nei grandi buchi… ogni dettaglio racconta qualcosa.
Lo ascolto.
L’ho trattato con religioso rispetto, quasi volessi chiedergli scusa per tutte i maltrattamenti subiti fino a quel momento. Ora è finito… lo olio per bene; mi ringrazia sfoggiando i suoi disegni tridimensionali, non solo alla vista ma anche al tatto, lo massaggio per bene e lo lascio riposare.
Il manico è il fratello di ogni corpo; è l’altra metà della chitarra. L’uno non ha senso senza l’altro. Non è facile fare una scelta per questo pezzo. Decido di recuperare un vecchio manico in acero che avevo su una mia chitarra che non esiste più. Ridiamo anche a lui un po’ di dignità. Sarà un degno compagno per quel pezzo di legno pure lui dimenticato.
Profilo “fat” e disegno semplice… troppo liscio e lucido però, forse ha sofferto troppo poco: diamogli fuoco va’. Ora va meglio.
Li metto insieme.
Fanno subito amicizia.
Ora ho due strade : corpo e manico smozzicati e rovinati e hardware nuovo e lucente, in un contrasto comunque apprezzabile oppure è meglio dare una ripassata anche ai metalli ? Scelgo la seconda.
Ponte, meccaniche, pomelli, presa jack… “relicchiamo” tutto via… con qualche artifizio porto l’aspetto delle parti metalliche al livello di consunzione temporale di quelle in legno. Imprimo però sul ponte e sulla placca del manico “2013”
Metto tutto insieme… non è leggera. Circa 3,7 chili. Del resto questa è quasi radica fossile. Meglio. Ci si ricorda di cosa si tratta quando la si imbraccia. E da una bella sensazione. È come incontrare una vecchia amica; vecchia ma ancora in forma.
Il seguito della storia parla di fori, viti, parti elettroniche filo e saldature. La poesia del legno finisce qui. Ma il resto è indispensabile per dare voce a quello che in alternativa sarebbe rimasto muto e senza vita per sempre.
Il risultato finale lo potete vedere cliccando qui